venerdì 5 dicembre 2008
Taira Kiyomori 平 清盛
Taira no Kiyomori (1118-1181) è un noto samurai del XII secolo, che negli ultimi anni del periodo Heian (794-1185) dominò la scena politica giapponese alla guida di un potente clan militare dell'epoca, i Taira. Suo padre Tadamori (1096-1153) aveva servito la Corte imperiale sottomettendo nel 1129 i pirati delle coste sud orientali; egli aveva inoltre permesso l'ascesa dei Taira nella Capitale a partire da un curioso incidente: mentre prestava servizio di guardia a palazzo, arrestò un vecchio lampionaio che aveva allarmato l'Imperatore; così facendo, Tadamori si era ingraziato quest'ultimo che gli donò la sua concubina preferita come segno di riconoscenza per averlo tranquillizzato. Dall'unione con la dama nacque Kiyomori, il quale, una volta adulto, si sarebbe vantato di avere sangue imperiale nelle vene.
In seguito alla morte di Tadamori, avvenuta nel 1153, Kiyomori gli successe nella guida del clan e si adoperò a rafforzare ulteriormente il potere dei Taira. A tale scopo, approfittò dei disordini provocati da alcune sette buddhiste, come la Tendai, le cui schiere di monaci-guerrieri (sohei), armati di naginata, minacciavano la Capitale. Si trattava in pratica di congregazioni monastiche che, divenute estremamente potenti attraverso l'acquisizione di proprietà private (shoen), erano in continua lotta tra loro per incrementare terre e prestigio, non esitando a far sentire la loro forza religiosa e militare alla stessa Corte. Per propiziarsi il favore dell'Imperatore, Kiyomori pensò bene quindi di intervenire contro di loro: nel 1164, attaccò dei monaci che stavano causando disordini e colpì con una freccia il grande reliquario mobile che stavano trasportando. A questo si aggiunsero altri assalti a istituzioni religiose (come il Todaji di Nara) che vennero da lui distrutte e saccheggiate. Con un Tale ricorso al dispotismo e alla violenza Kiyomori poté ricevere rispetto e cariche, nonché la possibilità di occuparsi della politica interna dell'Imperatore e del governo.In questo modo, Kiyomori entrò però in contrasto con la famiglia Fujiwara (allora piuttosto influente a Corte) e col clan militare dei Minamoto, che la sosteneva. L'opposizione politica finì per sfociare, nel 1156, nella guerra civile nota come Hogen no ran, cioè rivolta dell'era Hogen (1156-1158), nata da una disputa per la successione tra l'Imperatore in ritiro Sutoku e l'Imperatore regnante Go Shirakawa. Fu il primo scontro tra i Taira e i Mianmoto, rispettivamente sostenitori di Shirakawa e di Sutoku; alla fine, Kiyomori ne uscì vincitore, grazie in particolare all'appoggio di Yoshitomo, un membro di spicco dei Mianamoto che era passato dalla sua parte. Tuttavia, Yoshitomo, in seguito alla morte di suo padre e di suo fratello, combattenti nei ranghi opposti, non poté fare a meno di seguire la norma morale secondo cui "un uomo non può vivere sotto lo stesso tetto degli uccisori di suo padre": nel 1159, guidò quindi i Minamoto e i Fujiwara superstiti contro le truppe dei Taira radunate nella capitale (Rivolta Heiji), ma venne sconfitto e ucciso nel 1160. Seguirono poi molte esecuzioni capitali che decimarono il clan Minamoto, anche se Kiyomori, in contrasto con la sua spietatezza e con le consuetudini dell'epoca, risparmiò l'intera prole di Yoshitomo, probabilmente spinto dalle suppliche di una concubina del ribelle, Tokiwa.
Uscito vittorioso dalle rivolta Hogen e da quella Heiji, Kiyomori esercitò sulla corte un dominio incontrastato per circa un ventennio detto periodo Rokuhara (1160-1180), che prende il nome dall'omonima residenza, sede del quartier generale dei Taira nella Capitale. In questo periodo, i Taira rimpiazzarono i Fujiwara nel ruolo di reggenti imperiali, occupando la gerarchia di Corte e facendosi attribuire cariche e terre nelle province. Come avevano fatto i Fujiwara prima di lui, Kiyomori volle stabilire uno stretto legame con la dinastia imperiale attraverso il matrimonio politico, facendo sposare per esempio sua figlia a un membro della casa regnante nella speranza che nascesse un imperatore Taira. Così, nel 1180 pose sul trono il nipotino di soli due anni Antoku (1178-1185). Ma, diversamente dai Fujiwara, i Taira non erano una famiglia dell'aristocrazia civile (i kuge) dedita allo sfarzo e al cerimoniale di Corte, ma facevano parte dell'aristocrazia guerriera provinciale (i buke); erano insomma un clan di samurai, che fondava il suo potere sull'uso della forza e sul rispetto della "Via del Cavallo e dell'Arco", una sorta di codice etico morale del guerriero.
Tuttavia, insediandosi a Heianko e formando a tutti gli effetti un nuovo gruppo di cortigiani, Kiyomori finì per perdere il sostegno militare delle province e si allontanò dalla tradizione marziale delle campagne; inoltre, il dispotismo cui faceva ricorso per difendere la posizione raggiunta a Corte, suscitò il malcontento generale, anche tra coloro che erano stati inizialmente suoi alleati. Fu quindi facile per Minamoto no Yoritomo (1147-1199), uno dei figli di Yoshitomo scampati alla morte dopo la rivolta Heiji, sostenere la causa del principe ribelle Mochihito, e divenire il capo di una vasta coalizione samurai anti-Taira che guidò contro Kiyomori dalle province orientali. Scoppiò così la guerra Genpei (1180-1185), conclusasi con la cacciata dei Taira dalla Capitale e la loro distruzione nella battaglia navale di Dannoura (tra gli altri vi perse la vita l'imperatore bambino Antoku). Tramontava così per sempre il clan di Kiyomori, il quale morì di febbre nel 1181 a solo un anno dallo scoppio del conflitto.
venerdì 24 ottobre 2008
Il mondo letterario del Genji Monogatari 源氏物語
Agli inizi dell' XI secolo, e precisamente attorno all'anno 1004, la nobile Murasaki Shikibu (973-1014?) scrisse il Genji Monogatari (La storia di Genji), considerato il massimo capolavoro della letteratura giapponese e il primo romanzo della letteratura mondiale. Quest'opera trova il suo contesto storico-culturale nella corte imperiale del periodo Heian (794-1185) e fa parte di una ricca e pregevole produzione letteraria e artistica che ruota in modo pressoché esclusivo attorno all'aristocrazia civile (i kuge) del tempo. Allo stesso tempo, il Genji Monogatari ci offre un quadro vivace e accurato della vita sociale e privata della nobiltà di corte, trascurando, tuttavia, tutto ciò che avveniva fuori dal mondo culturale aristocratico della Capitale, un mondo tanto colto e raffinato quanto elitario e circoscritto.
Le espressioni culturali più elevate del periodo si ebbero, infatti, all'interno del ridotto gruppo di nobili che componeva la società di corte di Heiankyo e viveva nel palazzo imperiale o nelle vicine residenze dell'aristocrazia. In questa èlite creativa, dove la cura per l'abbigliamento, per l'etichetta e per le arti determinava lo status e la reputazione di un individuo, le donne, ormai escluse dall'esercizio del potere politico, svolgevano un ruolo culturale rilevante. Infatti, secondo la divisione dei ruoli basata sulla differenza di genere, una delle originali concezioni del periodo Heian, mentre gli uomini erano assorbiti dagli impegni politici, l'ingegno femminile poteva rivolgersi alla scrittura e dominare così il mondo letterario, dando alla luce i primi capolavori in kana (ovvero in giapponese).
Non a caso, numerosi scritti di questo periodo, in genere nikki (diari) o monogatari (racconti, lunghi o brevi) furono scritti dalle dame di corte, tra le quali spicca, appunto, Murasaki Shikibu. Tuttavia, dell'autrice del Genji Monogarari sappiamo ben poco. Persino il suo nome è incerto: fu chiamata Shikibu perché figlia di un cortigiano di basso grado del Ministero dei Riti (shikibu), appartenente a un ramo minore dei Fujiwara. Il nome Murasaki, che significa "porpora", deriva invece da una delle protagoniste del romanzo, Murasaki no Ue. Sposatasi con un Fujiwara nel 999 ma rimasta vedova due anni dopo, Shikibu entrò a corte come dama di compagnia di Shoshi, una delle mogli dell'Imperatore Ichijo; si trovò così al centro di un brillante gruppo di donne appassionate di letteratura. In questo ambiente di dame esisteva naturalmente un'accesa rivalità che si manifestava nei frequenti intrighi politici di corte, in amore e nello sfoggio delle proprie abilità letterarie.
In questo contesto, Shikibu compose, nel primo decennio dell' XI secolo il Genji Monogatari, il suo capolavoro. L'opera, episodica e complessa, con un gran numero di personaggi, è divisa in 54 libri che narrano le vicende di Genji, un principe immaginario, e dei suoi discendenti. La storia è strutturata in modo tale che ciascun episodio che la compone possa essere goduto separatamente, pur facendo chiaramente parte di un tutto più grande. I primi due terzi descrivono la giovinezza e la maturità di Genji, il "principe splendente" della corte di Heian. Il resto, invece, descrive il mondo dopo la sua morte. Genji rappresenta il cortigiano ideale - figlio di un imperatore, musicista raffinato, poeta, pittore e ballerino- ma è soprattutto un grande seduttore, che vive molteplici storie d'amore, alcune fuggevoli e superficiali, altre durevoli profonde e sofferte, ma in ciascuna di queste storie dimostra quel tatto e quell'eleganza che si confanno all'ambiente di Corte.
Tuttavia, Shikibu Murasaki non si limita a fare il resoconto di una lunga serie di amori, o a descrivere l'aspetto superficiale della vita di Corte, ma offre anche un'accurata analisi psicologica dei personaggi che popolano il suo romanzo. Ma il Genji Monogatari è ancora più significativo se si pensa che costituisce il manifesto dei valori culturali dell'aristocrazia di Heian, valori esemplificati dalla stessa figura del principe Genji. Uno di questi è il miyabi, sorta di ideale estetico dell'eleganza, della raffinatezza e di quella cura nei modi, nelle parole e nei sentimenti volta a eliminare ogni grossolaneità e rozzezza. Un'altro ideale estetico che troviamo nell'opera di Shikibu è, poi, il mono no aware (letteralmente, tristezza delle cose), ovvero un senso di ansietà che nasce dalla consapevolezza della transitorietà e della precarietà di ogni cosa terrena. Tale percezione, di chiara matrice buddhista, divenne predominante nella fase conclusiva del periodo Heian (e soprattutto nel successivo periodo Kamakura), ma la troviamo già nel Genji Monogatari nel quale, attraverso la ricorrente metafora della fioritura dei ciliegi o la stessa immagine del protagonista, esprime l'dea che il culmine della vitalità e della bellezza coincida con l'inizio del suo decadimento e del suo declino.
Le espressioni culturali più elevate del periodo si ebbero, infatti, all'interno del ridotto gruppo di nobili che componeva la società di corte di Heiankyo e viveva nel palazzo imperiale o nelle vicine residenze dell'aristocrazia. In questa èlite creativa, dove la cura per l'abbigliamento, per l'etichetta e per le arti determinava lo status e la reputazione di un individuo, le donne, ormai escluse dall'esercizio del potere politico, svolgevano un ruolo culturale rilevante. Infatti, secondo la divisione dei ruoli basata sulla differenza di genere, una delle originali concezioni del periodo Heian, mentre gli uomini erano assorbiti dagli impegni politici, l'ingegno femminile poteva rivolgersi alla scrittura e dominare così il mondo letterario, dando alla luce i primi capolavori in kana (ovvero in giapponese).
Non a caso, numerosi scritti di questo periodo, in genere nikki (diari) o monogatari (racconti, lunghi o brevi) furono scritti dalle dame di corte, tra le quali spicca, appunto, Murasaki Shikibu. Tuttavia, dell'autrice del Genji Monogarari sappiamo ben poco. Persino il suo nome è incerto: fu chiamata Shikibu perché figlia di un cortigiano di basso grado del Ministero dei Riti (shikibu), appartenente a un ramo minore dei Fujiwara. Il nome Murasaki, che significa "porpora", deriva invece da una delle protagoniste del romanzo, Murasaki no Ue. Sposatasi con un Fujiwara nel 999 ma rimasta vedova due anni dopo, Shikibu entrò a corte come dama di compagnia di Shoshi, una delle mogli dell'Imperatore Ichijo; si trovò così al centro di un brillante gruppo di donne appassionate di letteratura. In questo ambiente di dame esisteva naturalmente un'accesa rivalità che si manifestava nei frequenti intrighi politici di corte, in amore e nello sfoggio delle proprie abilità letterarie.
In questo contesto, Shikibu compose, nel primo decennio dell' XI secolo il Genji Monogatari, il suo capolavoro. L'opera, episodica e complessa, con un gran numero di personaggi, è divisa in 54 libri che narrano le vicende di Genji, un principe immaginario, e dei suoi discendenti. La storia è strutturata in modo tale che ciascun episodio che la compone possa essere goduto separatamente, pur facendo chiaramente parte di un tutto più grande. I primi due terzi descrivono la giovinezza e la maturità di Genji, il "principe splendente" della corte di Heian. Il resto, invece, descrive il mondo dopo la sua morte. Genji rappresenta il cortigiano ideale - figlio di un imperatore, musicista raffinato, poeta, pittore e ballerino- ma è soprattutto un grande seduttore, che vive molteplici storie d'amore, alcune fuggevoli e superficiali, altre durevoli profonde e sofferte, ma in ciascuna di queste storie dimostra quel tatto e quell'eleganza che si confanno all'ambiente di Corte.
Tuttavia, Shikibu Murasaki non si limita a fare il resoconto di una lunga serie di amori, o a descrivere l'aspetto superficiale della vita di Corte, ma offre anche un'accurata analisi psicologica dei personaggi che popolano il suo romanzo. Ma il Genji Monogatari è ancora più significativo se si pensa che costituisce il manifesto dei valori culturali dell'aristocrazia di Heian, valori esemplificati dalla stessa figura del principe Genji. Uno di questi è il miyabi, sorta di ideale estetico dell'eleganza, della raffinatezza e di quella cura nei modi, nelle parole e nei sentimenti volta a eliminare ogni grossolaneità e rozzezza. Un'altro ideale estetico che troviamo nell'opera di Shikibu è, poi, il mono no aware (letteralmente, tristezza delle cose), ovvero un senso di ansietà che nasce dalla consapevolezza della transitorietà e della precarietà di ogni cosa terrena. Tale percezione, di chiara matrice buddhista, divenne predominante nella fase conclusiva del periodo Heian (e soprattutto nel successivo periodo Kamakura), ma la troviamo già nel Genji Monogatari nel quale, attraverso la ricorrente metafora della fioritura dei ciliegi o la stessa immagine del protagonista, esprime l'dea che il culmine della vitalità e della bellezza coincida con l'inizio del suo decadimento e del suo declino.
martedì 19 agosto 2008
Il periodo Heian 平安時代 (794-1185)3
Durante la seconda metà del XII secolo, in Giappone si concretizzò il processo di trasferimento del potere dalla Corte e dall'aristocrazia civile (i kuge) alla classe militare, o samuraica, forgiatasi attorno alle grandi casate guerriere (i buke) che avevano consolidato potere nelle province. Discendenti dai rami collaterali di alcune prestigiose famiglie della Capitale o della stessa dinastia imperiale, i buke fecero sentire il loro peso politico e militare nel momento in cui vennero coinvolti nelle dispute per la successione imperiale; da una di queste dispute era infatti scoppiata una guerra civile nota come Hogen no ran, cioè rivolta dell'era Hogen (1156-1158), che vide contrapporsi sui campi di battaglia due clan militari delle province rivali, i Taira e i Minamoto, rispettivamente sostenitori dell'Imperatore Go Shirakawa e dell'Imperatore in ritiro Sutoku. I primi (noti anche come Heishi o Heike) discendevano dal figlio dell'Imperatore Kanmu e avevano stabilito un potere personale nelle regioni del Mare Interno, a ovest, mentre l'altro clan, quello dei Minamoto (o Genji), creato nell'814 dall'Imperatore Saga, aveva la propria sede nella regione del Kanto, a est.
I Taira, guidati dal loro leader Kiyomori (1118-1181), vinsero la guerra civile, sconfiggendo nel 1156 i Minamoto, che intanto erano sconvolti da gravi divisioni interne. Inoltre, dopo aver sventato una rivolta scoppiata nel 1159 e cappeggiata dai Minamoto superstiti e dalla famiglia Fujiwara (rivolta Heiji), Kiyomori impose il predominio del suo clan per un ventennio (1160-1180), che prende il nome di periodo Rokuhara. In questi anni, Kiyomori si stabilì a Heian dove sistemò se stesso e i membri della sua famiglia in alte cariche di Corte, sposò la figlia dell'imperatore e, nel 1180, fece salire al trono imperiale il suo nipote di soli due anni, Antoku (1178-1185). In questo modo, egli stabilì un controllo diretto sulla Corte, praticamente con gli stessi metodi usati dai Fujiwara nei secoli precedenti. Kiyomori, tuttavia, non si preoccupò di consolidare la sua posizione nei confronti degli altri clan guerrieri di provincia, appoggiandosi piuttosto alle tradizionali forme di potere; ma così facendo, le potenti famiglie guerriere non videro più in lui un'autorità capace e desiderosa di proteggere i loro interessi nelle campagne; a ciò si aggiunse il fatto che Kiyomori, a causa della sua violenza e del suo dispotismo, si rese inviso a molti, perfino a quelli che lo avevano inizialmente sostenuto.
Fu così che si venne a costituire una coalizione anti-Taira guidata da Yoritomo (1147-1199), uno dei Minamoto risparmiati da Kiyomori dopo la repressione della rivolta Heiji. Divenuto adulto sotto la custodia di un ramo minore dei Taira, gli Hojo, nel 1180 Yoritomo sfidò infatti l'autorità di Kiyomori e della Corte di Heian, approfittando della richiesta di aiuto di un principe imperiale ribelle: presto, i leaders militari di tutto il paese si misero al suo fianco. Il vasto esercito di Yoritomo riuscì ad avere la meglio sulla coalizione guidata dai Taira: dopo la scomparsa di Kiyomori (1181), i Minamoto presero la Capitale nel 1183, vi scacciarono i Taira e annientarono quest'ultimi nella battaglia navale di Dannoura (1185); in quel celebre scontro, tra l'altro, trovarono la morte molti membri della Corte, compreso l'imperatore bambino Antoku. Da questo conflitto, noto col nome di Guerra Genpei (1180-1185), Minamoto Yoritomo uscì quindi come capo militare indiscusso di tutto il paese e questo fatto avrebbe avuto conseguenze tanto grandi da inaugurare un nuovo ordine e una nuova fase della storia giapponese.
I Taira, guidati dal loro leader Kiyomori (1118-1181), vinsero la guerra civile, sconfiggendo nel 1156 i Minamoto, che intanto erano sconvolti da gravi divisioni interne. Inoltre, dopo aver sventato una rivolta scoppiata nel 1159 e cappeggiata dai Minamoto superstiti e dalla famiglia Fujiwara (rivolta Heiji), Kiyomori impose il predominio del suo clan per un ventennio (1160-1180), che prende il nome di periodo Rokuhara. In questi anni, Kiyomori si stabilì a Heian dove sistemò se stesso e i membri della sua famiglia in alte cariche di Corte, sposò la figlia dell'imperatore e, nel 1180, fece salire al trono imperiale il suo nipote di soli due anni, Antoku (1178-1185). In questo modo, egli stabilì un controllo diretto sulla Corte, praticamente con gli stessi metodi usati dai Fujiwara nei secoli precedenti. Kiyomori, tuttavia, non si preoccupò di consolidare la sua posizione nei confronti degli altri clan guerrieri di provincia, appoggiandosi piuttosto alle tradizionali forme di potere; ma così facendo, le potenti famiglie guerriere non videro più in lui un'autorità capace e desiderosa di proteggere i loro interessi nelle campagne; a ciò si aggiunse il fatto che Kiyomori, a causa della sua violenza e del suo dispotismo, si rese inviso a molti, perfino a quelli che lo avevano inizialmente sostenuto.
Fu così che si venne a costituire una coalizione anti-Taira guidata da Yoritomo (1147-1199), uno dei Minamoto risparmiati da Kiyomori dopo la repressione della rivolta Heiji. Divenuto adulto sotto la custodia di un ramo minore dei Taira, gli Hojo, nel 1180 Yoritomo sfidò infatti l'autorità di Kiyomori e della Corte di Heian, approfittando della richiesta di aiuto di un principe imperiale ribelle: presto, i leaders militari di tutto il paese si misero al suo fianco. Il vasto esercito di Yoritomo riuscì ad avere la meglio sulla coalizione guidata dai Taira: dopo la scomparsa di Kiyomori (1181), i Minamoto presero la Capitale nel 1183, vi scacciarono i Taira e annientarono quest'ultimi nella battaglia navale di Dannoura (1185); in quel celebre scontro, tra l'altro, trovarono la morte molti membri della Corte, compreso l'imperatore bambino Antoku. Da questo conflitto, noto col nome di Guerra Genpei (1180-1185), Minamoto Yoritomo uscì quindi come capo militare indiscusso di tutto il paese e questo fatto avrebbe avuto conseguenze tanto grandi da inaugurare un nuovo ordine e una nuova fase della storia giapponese.
sabato 9 agosto 2008
L'Ascesa della classe guerriera
Col periodo Heian (794-1185), si assiste al declino del governo imperiale, il quale perdeva progressivamente potere e controllo sul paese, non riuscendo mai a stabilire una totale ed efficace autorità sugli altri clan. Nel frattempo, l'effettivo potere politico ed economico era passato nelle mani dell'aristocrazia civile, capeggiata dalla più influente famiglia di Corte, i Fujiwara. Tuttavia, anche la nobiltà della Capitale aveva finito per perdere il controllo sulla vita politica ed economica del paese, rimanendo attaccata al raffinato cerimoniale di Corte e dedicando le proprie energie alle arti, alla poesia e ai piaceri piuttosto che all'amministrazione dello stato. Intanto, fuori scena, lontano dagli splendori artistici e letterari della Capitale dominata dai Fujiwara, altri protagonisti stavano lentamente gettando le basi di un Giappone del tutto nuovo.
Si trattava della nobiltà provinciale, composta da potenti leader locali e da aristocratici di basso rango, provenienti in genere da rami collaterali del clan Fujiwara o di quello imperiale, comprese le famiglie di stirpe imperiale "escluse", come i Tachibana, i Taira o i Minamoto; private del diritto di successione al trono secondo una pratica avviata sotto il regno dell'Imperatore Shomu (724-749), molte di queste famiglie avevano scelto di migliorare il proprio status trasferendosi nelle province, dove potevano acquistare alte cariche pubbliche o assumere la gestione diretta delle proprietà agricole. Oltre al prestigio sociale e al potere politico ed economico, questi "nobili di campagna", spesso disprezzati dalla nobiltà centrale, assunsero anche una notevole forza militare che avrebbe consentito loro di entrare da protagonisti nella competizione politica, dettando nuove regole e aspirando a posizioni sempre più elevate.
A determinare l'ascesa di questa aristocrazia militare delle province (i buke), a spese di quella civile della Capitale (i kuge), concorse un complessa serie di fattori economici, sociali e politici; uno di questi fu la separazione fra proprietà e possesso: in poche parole, gran parte della terra coltivabile, pur essendo proprietà privata (detta shoen) delle grandi famiglie aristocratiche di Corte o di istituzioni religiose, veniva da queste ultime lasciata in affidamento a famiglie dell'aristocrazia provinciale che avevano il compito di amministrarle in loro vece. In questo modo, mentre i legittimi proprietari, risiedenti spesso lontani dalle proprie tenute agricole, finivano per perdere il controllo diretto su di esse, e di conseguenza sui loro proventi, la nobiltà di provincia stava facendosi un'esperienza concreta di governo, consolidando sempre di più il proprio potere su terre e contadini. Inoltre, come ho già accennato sopra, i nobili provinciali riuscirono a dotarsi di una personale forza militare nel momento in cui, col venire meno della capacità del governo centrale di mantenere l'ordine nel paese, venne loro chiesto di organizzare corpi di combattenti per difendere le proprie terre dai briganti, da monaci guerrieri e da malviventi di ogni sorta.
Ciò favorì la nascita e lo sviluppo di eminenti figure di guerrieri provinciali appartenenti all'élite locale, dediti all'addestramento alle arti militari (come il tiro con l'arco o la scherma), e dotati di armature e cavalli. Fu tra il IX il X secolo che, in seguito al declino dell'esercito imperiale a coscrizione obbligatoria, rivelatosi poco efficace, la forza e il talento militare vennero esercitati in modo sempre più esclusivo da questi professionisti della guerra, inizialmente chiamati bushi (uomini d'armi) o saburai (coloro che servono), poi divenuti noti sotto il nome di samurai. Col tempo, i samurai, in origine militari e funzionari al servizio delle élites dominanti, assunsero il totale controllo sulle terre agricole, dato che la loro forza militare superò quella delle grandi famiglie dell'aristocrazia civile, che invece mostravano un profondo disprezzo per le armi e l'attività militare. Inoltre, essi forgiarono un'identità comune come classe distinta dal resto della società, dotandosi di norme comportamentali, coniando una cultura propria e, soprattutto, stabilendo al loro interno una rete di rapporti gerarchici.
Si trattava della nobiltà provinciale, composta da potenti leader locali e da aristocratici di basso rango, provenienti in genere da rami collaterali del clan Fujiwara o di quello imperiale, comprese le famiglie di stirpe imperiale "escluse", come i Tachibana, i Taira o i Minamoto; private del diritto di successione al trono secondo una pratica avviata sotto il regno dell'Imperatore Shomu (724-749), molte di queste famiglie avevano scelto di migliorare il proprio status trasferendosi nelle province, dove potevano acquistare alte cariche pubbliche o assumere la gestione diretta delle proprietà agricole. Oltre al prestigio sociale e al potere politico ed economico, questi "nobili di campagna", spesso disprezzati dalla nobiltà centrale, assunsero anche una notevole forza militare che avrebbe consentito loro di entrare da protagonisti nella competizione politica, dettando nuove regole e aspirando a posizioni sempre più elevate.
A determinare l'ascesa di questa aristocrazia militare delle province (i buke), a spese di quella civile della Capitale (i kuge), concorse un complessa serie di fattori economici, sociali e politici; uno di questi fu la separazione fra proprietà e possesso: in poche parole, gran parte della terra coltivabile, pur essendo proprietà privata (detta shoen) delle grandi famiglie aristocratiche di Corte o di istituzioni religiose, veniva da queste ultime lasciata in affidamento a famiglie dell'aristocrazia provinciale che avevano il compito di amministrarle in loro vece. In questo modo, mentre i legittimi proprietari, risiedenti spesso lontani dalle proprie tenute agricole, finivano per perdere il controllo diretto su di esse, e di conseguenza sui loro proventi, la nobiltà di provincia stava facendosi un'esperienza concreta di governo, consolidando sempre di più il proprio potere su terre e contadini. Inoltre, come ho già accennato sopra, i nobili provinciali riuscirono a dotarsi di una personale forza militare nel momento in cui, col venire meno della capacità del governo centrale di mantenere l'ordine nel paese, venne loro chiesto di organizzare corpi di combattenti per difendere le proprie terre dai briganti, da monaci guerrieri e da malviventi di ogni sorta.
Ciò favorì la nascita e lo sviluppo di eminenti figure di guerrieri provinciali appartenenti all'élite locale, dediti all'addestramento alle arti militari (come il tiro con l'arco o la scherma), e dotati di armature e cavalli. Fu tra il IX il X secolo che, in seguito al declino dell'esercito imperiale a coscrizione obbligatoria, rivelatosi poco efficace, la forza e il talento militare vennero esercitati in modo sempre più esclusivo da questi professionisti della guerra, inizialmente chiamati bushi (uomini d'armi) o saburai (coloro che servono), poi divenuti noti sotto il nome di samurai. Col tempo, i samurai, in origine militari e funzionari al servizio delle élites dominanti, assunsero il totale controllo sulle terre agricole, dato che la loro forza militare superò quella delle grandi famiglie dell'aristocrazia civile, che invece mostravano un profondo disprezzo per le armi e l'attività militare. Inoltre, essi forgiarono un'identità comune come classe distinta dal resto della società, dotandosi di norme comportamentali, coniando una cultura propria e, soprattutto, stabilendo al loro interno una rete di rapporti gerarchici.
domenica 13 luglio 2008
Tengu 天狗
I Tengu, sono alcuni dei più famosi bakemono (mostri) che popolano l'immaginario folclorico giapponese. Collocati solitamente all'interno di foreste, essi vengono descritti nei modi più diversi; un tengu può apparire nei miti come:
Inoltre, i tengu venivano considerati i migliori insegnanti di arti marziali, tanto che diversi studenti si arrampicavano sulle montagne alla loro ricerca, nella speranza di imparare le arti magiche, o quelle di combattimento più raffinate. Specialmente l'abilità ninja era associata ai tengu, ma da loro si potevano imparare anche tecniche onorevoli, e alcuni valorosi guerrieri attribuivano, o vedevano attribuita, l'origine delle proprie abilità agli insegnamenti di un maestro tengu. Per esempio, tradizione vuole che il noto fratello di Minamoto Yoritomo, Minamoto Yoshitsune, eroe militare del XII secolo, abbia appreso l'arte della spada da bambino da un vecchio e saggio tengu incontrato nella foresta.
Per quanto riguarda le notizie sulle origini dei tengu, anch'esse cambiano nel tempo: talvolta queste creature sono il risultato della trasformazione di uomini, in genere preti buddhisti o shintioisti, che erano stati maledetti dai loro pari a causa di alcuni difetti; in altri casi, sono invece descritti come semidei, demoni o razze di mostri del tutto separate dagli umani. Le leggende che attestano quest'ultima versione parlano spesso di nidi di tengu, nascosti con grande cura sulle montagne più alte e riempiti di uova enormi. La femmina tengu viene raramente menzionata e talvolta appare così diversa dal maschio che i due sono facilmente confusi in due specie distinte.
Oltre che nel folklore popolare, la figura del tengu la troviamo anche nella mitologia religiosa. Per esempio, dalla cosmologia buddhista, il tengu appare come un demone di mentalità piuttosto semplice che ha un'unico scopo: sviare i fedeli dal loro cammino spirituale. Inoltre, specialmente in passato, erano molto diffusi veri e propri culti presso santuari dedicati ai tengu; altrettanto diffusa era la pratica di indossare una maschera tengu durante un pellegrinaggio religioso; tra l'altro, tale maschera veniva utilizzata nella tragedia del teatro No e tuttora la si può trovare spesso appesa alla parete di bar e ristoranti tipicamente giapponesi.
Testo liberamente tradotto ed elaborato dalla pagina web http://www.jh-author.com/tengu.htm.
- Un normale essere umano.
- Un uomo dal naso enorme, o troppo lungo per essere reale.
- Un uomo alato e/o con un tozzo becco d'uccello.
- Un ibrido uomo/uccello con piedi e mani dotati di artigli.
- Un uccello vero e proprio (si tratterrebbe di un caso assai raro).
- Vari ibridi dati dalla combinazione delle forme sopra elencate.
Inoltre, i tengu venivano considerati i migliori insegnanti di arti marziali, tanto che diversi studenti si arrampicavano sulle montagne alla loro ricerca, nella speranza di imparare le arti magiche, o quelle di combattimento più raffinate. Specialmente l'abilità ninja era associata ai tengu, ma da loro si potevano imparare anche tecniche onorevoli, e alcuni valorosi guerrieri attribuivano, o vedevano attribuita, l'origine delle proprie abilità agli insegnamenti di un maestro tengu. Per esempio, tradizione vuole che il noto fratello di Minamoto Yoritomo, Minamoto Yoshitsune, eroe militare del XII secolo, abbia appreso l'arte della spada da bambino da un vecchio e saggio tengu incontrato nella foresta.
Per quanto riguarda le notizie sulle origini dei tengu, anch'esse cambiano nel tempo: talvolta queste creature sono il risultato della trasformazione di uomini, in genere preti buddhisti o shintioisti, che erano stati maledetti dai loro pari a causa di alcuni difetti; in altri casi, sono invece descritti come semidei, demoni o razze di mostri del tutto separate dagli umani. Le leggende che attestano quest'ultima versione parlano spesso di nidi di tengu, nascosti con grande cura sulle montagne più alte e riempiti di uova enormi. La femmina tengu viene raramente menzionata e talvolta appare così diversa dal maschio che i due sono facilmente confusi in due specie distinte.
Oltre che nel folklore popolare, la figura del tengu la troviamo anche nella mitologia religiosa. Per esempio, dalla cosmologia buddhista, il tengu appare come un demone di mentalità piuttosto semplice che ha un'unico scopo: sviare i fedeli dal loro cammino spirituale. Inoltre, specialmente in passato, erano molto diffusi veri e propri culti presso santuari dedicati ai tengu; altrettanto diffusa era la pratica di indossare una maschera tengu durante un pellegrinaggio religioso; tra l'altro, tale maschera veniva utilizzata nella tragedia del teatro No e tuttora la si può trovare spesso appesa alla parete di bar e ristoranti tipicamente giapponesi.
Testo liberamente tradotto ed elaborato dalla pagina web http://www.jh-author.com/tengu.htm.
mercoledì 18 giugno 2008
Le scuole buddhiste del periodo Heian
Durante il periodo Heian (794-1185), ebbe luogo una grande trasformazione del buddhismo ma, per comprenderla, bisognerebbe fare qualche passo indietro. Prima di tutto, questa religione era nata in India nel VI secolo a.C. ed era giunta dalla Cina e dalla Corea come concezione puramente intellettuale, atta a rafforzare e legittimare il potere centrale, rappresentato allora dal clan Soga e dalla casa imperiale. Infatti, quando il buddhismo fece ufficialmente il suo ingresso in Giappone nel 538, a fare presa sulle classi elevate non furono tanto le originarie concezioni di questa religione (come l'atteggiamento pessimistico verso la vita, la reincarnazione e il nirvana), quanto piuttosto l'arte, la letteratura, i cerimoniali e i poteri magici che accompagnavano la sua filosofia. Inoltre, fino all'VIII secolo, il buddhismo rimase strettamente confinato all'aristocrazia di corte, senza che le sei cosiddette sette di Nara coinvolgessero il resto della popolazione.
Tuttavia, un mutamento sostanziale della situazione avvenne proprio nel periodo in questione, precisamente all'inizio del IX secolo, quando dal continente giunsero due nuove scuole di pensiero che si diffusero maggiormente tra il popolo; entrambe furono introdotte da due monaci che avevano accompagnato la missione diplomatica in Cina dell'804. Uno di questi monaci, Kukai (744-835), noto altrimenti come Kobo Daishi (Daishi significa "grande maestro"), portò con sé dalla Cina gli insegnamenti del buddhismo tantrico e fondò come suo quartiere generale un monastero sul monte Kuya, all'estremità meridionale della capitale. Così introdusse lo Shingon (letteralmente, "vera parola"), una setta esoterica, che presentava comunque un'aspetto popolare caratterizzato da formule magiche, incantesimi per i morti e altri rituali. Lo Shingon ottenne grande popolarità negli ambienti di corte, proprio in quanto poneva l'accento sulla ritualità magica; inoltre, dato che considerava le divinità shintoiste manifestazioni locali giapponesi delle universali divinità buddhiste, esso contribuì anche alla fusione sia teologica che istituzionale delle due religioni.
L'altro bonzo di ritorno dall'ambasceria dell'804, Saicho (767-822), noto anche come Dengyo Daishi, promosse invece la costruzione di un vasto complesso monastico sul monte Hiei-zan, situato a nord-est di Heian: dato che il nord-est era considerata una direzione infausta, Saicho, per proteggere la capitale dagli influssi maligni, aveva scelto proprio il monte Hiei-zan come luogo ideale in cui fondare la sua scuola, la setta del Tendai (il nome deriva dal monte Tiantai dove il monaco aveva appreso la dottrina in Cina). Si trattava di una scuola eclettica, secondo la quale tutti gli esseri viventi potevano diventare "Buddha", giungere cioè a uno stato di illuminazione, attraverso una serie di pratiche (studi, meditazioni ed evocazioni); tale dottrina ebbe grande successo presso tutti gli strati sociali, tanto da diventare religione di stato, in quanto riuscì ad assorbire elementi provenienti da vari culti e scuole (sia buddhiste che shintoiste), adattandole a livelli diversi di comprensione individuale.
Col tempo, i complessi monastici di queste due scuole riuscirono a diventare veri e propri centri di potere alternativi alla Corte imperiale. Essi, infatti, avevano iniziato a rifornirsi di armi e a disporre di monaci guerrieri (detti sohei), non solo per dirimere contrasti politici e dottrinali interni o con altre scuole, ma soprattutto per impadronirsi con la forza di estesi spazi agricoli. Emblematico è il caso della setta Tendai, il cui tempio di Enryaku-ji sul monte Hiei-zan fu, al tempo di Saicho, il fulcro di un complesso di oltre 3000 edifici: i suoi numerosi monaci finirono per costituire un esercito in armi e perfino orde di banditi che, a partire dall' XI secolo, effettuavano sporadiche, ma devastanti, incursioni in città. Inoltre, queste sette disponevano pure di un potere magico-religioso che utilizzarono spesso per intimorire e minacciare il governo imperiale. Quindi quest'ultimo, pur non vedendo direttamente minacciata la sua autonomia dalla presenza di templi buddhisti all'interno della capitale (come era avvenuto invece nel periodo Nara), venne progressivamente privato di numerosi possedimenti terrieri, e quindi del potere effettivo, dalle nuove istituzioni religiose.
Tuttavia, un mutamento sostanziale della situazione avvenne proprio nel periodo in questione, precisamente all'inizio del IX secolo, quando dal continente giunsero due nuove scuole di pensiero che si diffusero maggiormente tra il popolo; entrambe furono introdotte da due monaci che avevano accompagnato la missione diplomatica in Cina dell'804. Uno di questi monaci, Kukai (744-835), noto altrimenti come Kobo Daishi (Daishi significa "grande maestro"), portò con sé dalla Cina gli insegnamenti del buddhismo tantrico e fondò come suo quartiere generale un monastero sul monte Kuya, all'estremità meridionale della capitale. Così introdusse lo Shingon (letteralmente, "vera parola"), una setta esoterica, che presentava comunque un'aspetto popolare caratterizzato da formule magiche, incantesimi per i morti e altri rituali. Lo Shingon ottenne grande popolarità negli ambienti di corte, proprio in quanto poneva l'accento sulla ritualità magica; inoltre, dato che considerava le divinità shintoiste manifestazioni locali giapponesi delle universali divinità buddhiste, esso contribuì anche alla fusione sia teologica che istituzionale delle due religioni.
L'altro bonzo di ritorno dall'ambasceria dell'804, Saicho (767-822), noto anche come Dengyo Daishi, promosse invece la costruzione di un vasto complesso monastico sul monte Hiei-zan, situato a nord-est di Heian: dato che il nord-est era considerata una direzione infausta, Saicho, per proteggere la capitale dagli influssi maligni, aveva scelto proprio il monte Hiei-zan come luogo ideale in cui fondare la sua scuola, la setta del Tendai (il nome deriva dal monte Tiantai dove il monaco aveva appreso la dottrina in Cina). Si trattava di una scuola eclettica, secondo la quale tutti gli esseri viventi potevano diventare "Buddha", giungere cioè a uno stato di illuminazione, attraverso una serie di pratiche (studi, meditazioni ed evocazioni); tale dottrina ebbe grande successo presso tutti gli strati sociali, tanto da diventare religione di stato, in quanto riuscì ad assorbire elementi provenienti da vari culti e scuole (sia buddhiste che shintoiste), adattandole a livelli diversi di comprensione individuale.
Col tempo, i complessi monastici di queste due scuole riuscirono a diventare veri e propri centri di potere alternativi alla Corte imperiale. Essi, infatti, avevano iniziato a rifornirsi di armi e a disporre di monaci guerrieri (detti sohei), non solo per dirimere contrasti politici e dottrinali interni o con altre scuole, ma soprattutto per impadronirsi con la forza di estesi spazi agricoli. Emblematico è il caso della setta Tendai, il cui tempio di Enryaku-ji sul monte Hiei-zan fu, al tempo di Saicho, il fulcro di un complesso di oltre 3000 edifici: i suoi numerosi monaci finirono per costituire un esercito in armi e perfino orde di banditi che, a partire dall' XI secolo, effettuavano sporadiche, ma devastanti, incursioni in città. Inoltre, queste sette disponevano pure di un potere magico-religioso che utilizzarono spesso per intimorire e minacciare il governo imperiale. Quindi quest'ultimo, pur non vedendo direttamente minacciata la sua autonomia dalla presenza di templi buddhisti all'interno della capitale (come era avvenuto invece nel periodo Nara), venne progressivamente privato di numerosi possedimenti terrieri, e quindi del potere effettivo, dalle nuove istituzioni religiose.
martedì 10 giugno 2008
Il periodo Heian 平安時代 (794-1185)2
A Heiankyo, la corte raggiunse il suo massimo splendore sotto molti aspetti: la nobiltà della capitale conduceva un'esistenza fatta di un benessere e una raffinatezza, visibili nello splendore della produzione artistica e letteraria; con la sua raffinatezza e la sua impeccabile etichetta, essa competeva con le corti di ogni tempo e luogo, lasciando all'umanità alcuni esempi della migliore arte e letteratura del mondo antico. Allo stesso tempo, comunque, i principi e i cortigiani dell'odierna Kyoto, dedicandosi a passatempi piacevoli e a discorsi eruditi piuttosto che che all'amministrazione dello Stato, finirono per perdere il controllo sul mondo reale al di fuori della corte; intanto, godendo ancora di una certa autonomia e in un clima di relativa pace e stabilità, essi svilupparono le prime forme di una cultura nazionale, prendendo sempre più le distanze dal modello cinese.
Infatti, in seguito al declino della dinastia T'ang nel 907, il Giappone aveva interrotto i rapporti che aveva intrattenuto fino ad allora col continente; già nell'894, era stato deciso di non inviare missioni diplomatiche in Cina, a causa dei gravi disordini in atto. A partire dal IX secolo, insieme ai contatti politici cessava poi anche l'entusiasmo per tutto ciò che fosse cinese, mentre stava maturando una cultura autoctona, in grado di assimilare e adattare ciò che aveva fino ad allora acquisito da oltremare. In questo modo, nascevano in Giappone forme artistiche e letterarie originali e autonome, nonostante la Cina classica continuasse a godere di alto credito presso l'elite dominante.
Intanto, uno dei segni più evidenti dell'aumentato distacco dai modelli cinesi fu l'elaborazione, avvenuta nei secoli IX e X, di un nuovo sistema di scrittura: si tratta del kana, il sillabario giapponese, nato dalla trasformazione dei caratteri cinesi (kanji) in simboli fonetici privi di ogni significato specifico. I kana venivano utilizzati assieme ai kanji in una struttura grammaticale autoctona, diversa da quella cinese; inoltre, si dividevano a loro volta in 2 sillabari distinti, ciascuno fatto di circa 50 segni, uno corsivo (hiragana) e l'altro non corsivo (katakana).
In un primo momento, i sillabari kana, venivano usati principalmente dalle donne di corte che, in genere, non avevano abbastanza cultura per scrivere in cinese; invece, gli uomini più eruditi, disdegnavano di servirsi della propria lingua per scrivere opere importanti, dato che la conoscenza della cultura classica cinese continuava ad essere un requisito indispensabile e un tratto distintivo dello status di aristocratico. Così, mentre i maschi dell'aristocrazia continuavano a comporre scritti in cinese, generalmente di qualità mediocre, le loro dame, cimentandosi nella composizione di diari (nikki) e racconti (monogatari) in "giapponese", davano vita alla prima prosa letteraria in questa lingua. Fu in questo contesto, quindi, che la dama di corte Murasaki Shikibu scrisse, intorno al 1004, il Genji monogatari (la Storia di Genji), dove si narrano le avventure amorose e la maturazione psicologica di Genji, un principe immaginario. Considerato il primo romanzo in prosa della storia, il Genji Monogatari costituisce l'opera letteraria più eminente del periodo Heian e resta anche tra le maggiori di tutti i tempi. Essa, inoltre, fornisce informazioni utili, se non indispensabili, sulla vita sociale e culturale della corte imperiale dell'epoca, nonché sugli stessi cortigiani e sul loro totale disinteressamento verso le trasformazioni epocali che stavano avvenendo allora nelle province agricole.
Infatti, in seguito al declino della dinastia T'ang nel 907, il Giappone aveva interrotto i rapporti che aveva intrattenuto fino ad allora col continente; già nell'894, era stato deciso di non inviare missioni diplomatiche in Cina, a causa dei gravi disordini in atto. A partire dal IX secolo, insieme ai contatti politici cessava poi anche l'entusiasmo per tutto ciò che fosse cinese, mentre stava maturando una cultura autoctona, in grado di assimilare e adattare ciò che aveva fino ad allora acquisito da oltremare. In questo modo, nascevano in Giappone forme artistiche e letterarie originali e autonome, nonostante la Cina classica continuasse a godere di alto credito presso l'elite dominante.
Intanto, uno dei segni più evidenti dell'aumentato distacco dai modelli cinesi fu l'elaborazione, avvenuta nei secoli IX e X, di un nuovo sistema di scrittura: si tratta del kana, il sillabario giapponese, nato dalla trasformazione dei caratteri cinesi (kanji) in simboli fonetici privi di ogni significato specifico. I kana venivano utilizzati assieme ai kanji in una struttura grammaticale autoctona, diversa da quella cinese; inoltre, si dividevano a loro volta in 2 sillabari distinti, ciascuno fatto di circa 50 segni, uno corsivo (hiragana) e l'altro non corsivo (katakana).
In un primo momento, i sillabari kana, venivano usati principalmente dalle donne di corte che, in genere, non avevano abbastanza cultura per scrivere in cinese; invece, gli uomini più eruditi, disdegnavano di servirsi della propria lingua per scrivere opere importanti, dato che la conoscenza della cultura classica cinese continuava ad essere un requisito indispensabile e un tratto distintivo dello status di aristocratico. Così, mentre i maschi dell'aristocrazia continuavano a comporre scritti in cinese, generalmente di qualità mediocre, le loro dame, cimentandosi nella composizione di diari (nikki) e racconti (monogatari) in "giapponese", davano vita alla prima prosa letteraria in questa lingua. Fu in questo contesto, quindi, che la dama di corte Murasaki Shikibu scrisse, intorno al 1004, il Genji monogatari (la Storia di Genji), dove si narrano le avventure amorose e la maturazione psicologica di Genji, un principe immaginario. Considerato il primo romanzo in prosa della storia, il Genji Monogatari costituisce l'opera letteraria più eminente del periodo Heian e resta anche tra le maggiori di tutti i tempi. Essa, inoltre, fornisce informazioni utili, se non indispensabili, sulla vita sociale e culturale della corte imperiale dell'epoca, nonché sugli stessi cortigiani e sul loro totale disinteressamento verso le trasformazioni epocali che stavano avvenendo allora nelle province agricole.
domenica 1 giugno 2008
Il periodo Heian 平安時代 (794-1185)1
Alla fine dell'VIII secolo, l'Imperatore Kanmu, in carica dal 781 all'806, volendo sfuggire all'influenza dei templi buddhisti che sorgevano tutt'intorno alla capitale imperiale di Nara, decise nel 789 di trasferire la corte a Nagaoka; lì tuttavia, cospirazioni e assassini, nati da dispute per la successione al trono, lo costrinsero a spostare nuovamente la sede del governo. Così, nel 794, fondò Heiankyo (letteralmente, "capitale della pace e della tranquillità"), poi ribattezzata Kyoto, che da allora sarebbe stata la capitale ufficiale per più di mille anni, fino al 1868. Costruita come Nara secondo lo schema urbanistico a griglia cinese, questa città rappresentò il principale cento politico, sociale e culturale del Giappone per quasi 4 secoli, un periodo che prende appunto il nome di era Heian.
Si tratta di un momento decisivo per la storia giapponese, in quanto con esso giunge a compimento la frattura tra due diverse realtà: quella della corte imperiale, sede dell' aristocrazia più erudita che conduceva un esistenza agiata e raffinata; e quella delle province rurali, dove si era formata e si stava via via rafforzando la nuova classe guerriera, o samuraica, che, proprio in questo periodo, avrebbe sostituito le istituzioni del governo centrale nella gestione dello Stato. Infatti, con l'acuirsi delle contraddizioni del sistema fondiario, già emerse nel periodo Nara, la dinastia regnante stava progressivamente perdendo il controllo sociale, economico e quindi politico su numerose aree agricole dell'arcipelago, e sui relativi abitanti. Nemmeno i tentativi da parte di Kanmu e dei suoi tre successori di ripristinare i princìpi enunciati nel Codice Ritsuryo, posero fine all' ormai inevitabile declino del potere imperiale.
A beneficiare di questa situazione, prima ancora dell'aristocrazia guerriera provinciale, fu il clan Fujiwara, che riuscì ad avere un' influenza quasi assoluta sulla dinastia imperiale, limitando drasticamente il potere personale del tenno. Attraverso un'abile politica matrimoniale e l'esercizio della reggenza, i Fujiwara dominarono infatti la Corte per buona parte del periodo in questione, in particolare tra il 967 e il 1068, arco di tempo che prende appunto il nome di "governo dei reggenti" (o sekkan seiji) Fujiwara. Tuttavia, la loro influenza venne ridimensionata dall'istituzione del governo degli imperatori in ritiro (o insei), anche detto "governo del chiostro". Secondo tale prassi, già attuata in passato ma divenuta assai comune dalla fine dell'XI secolo, un imperatore abdicava presto per liberarsi da qualunque interferenza esterna; posto sul trono un imperatore molto giovane, egli lo avrebbe quindi controllato al posto di un reggente. Grazie a questa strategia, nel 1086, l'Imperatore Shirakawa poté così svincolarsi dai Fujiwara e contrastare il loro dominio sulla Corte.
Comunque, sia il governo dei reggenti che il governo del chiostro, insieme a tanti altri giochi di potere e intrighi vari, finirono per danneggiare inevitabilmente la coesione e l'efficacia del governo centrale, e contribuirono all'ulteriore perdita di un controllo reale sulla nazione, in particolare sulle risorse economiche. Intanto, al di fuori della Corte emergeva sempre più il potere dei capi delle bande guerriere provinciali che nelle campagne, lontani dagli sfarzi di Heiankyo, stavano gettando le fondamenta di un Giappone diverso, il Giappone feudale.
domenica 25 maggio 2008
L'egemonia dei Fujiwara 藤原
Per introdurre il periodo Heian (794-1185), ovvero quello che segnò il passaggio dal Giappone antico a quello propriamente feudale, volevo prima parlare del potente clan Fujiwara, che proprio in quel periodo raggiunse il suo apogeo. I Fujiwara erano i discendenti di Nakatomi Kamatari, uno dei due leader del colpo di Stato del 645 che pose fine a lungo dominio del clan Soga. Da quel momento ebbe inizio la lenta e progressiva ascesa al potere della famiglia Fujiwara, divenuta col tempo protagonista indiscussa degli intrighi che sconvolgevano allora la Corte imperiale; infatti, come era già avvenuto per i Soga qualche secolo prima, essa riuscì a conquistare una posizione politica ed economica preponderante grazie, in particolare, a un'abile pianificazione di matrimoni organizzati per le sue figlie che spesso diventavano consorti imperiali: già nel periodo Nara (710-794), per esempio, l'imperatrice Koken era di madre Fujiwara così come numerosi altri sovrani nel corso dei tre secoli successivi. Esemplare fu il caso di Fujiwara Michinaga (966-1027), che, durante il periodo di massimo splendore per il proprio clan, fu padre di quattro donne divenute consorti imperiali e nonno di ben tre imperatori (inutile dire quanto questo fatto influisse sulla sua egemonia).
Accanto alla consuetudine di dare i natali a molti imperatori, i discendenti di Nakatomi emersero dalle lotte per il potere anche grazie al fatto di riuscire a farsi conferire importanti cariche della burocrazia statale. Decisivo per la loro ascesa al potere fu il ruolo svolto dal capo clan Fujiwara Yoshifusa (804-872), che, nell'858, insediò al trono imperiale un suo nipote di soli 7 anni e, nell'866, ottenne la più alta carica conseguibile a Corte, quella di reggente imperiale (sessho), fino ad allora ricoperta solo dai membri della stirpe regnante. Yoshifusa mantenne poi la reggenza anche dopo che il sovrano uscì di minorità, una pratica, questa, assolutamente inconsueta e irregolare. Il suo esempio fu poi seguito dal figlio adottivo Fujiwara Mototsune (836-891) il quale fece creare per sé la nuova e più importante carica di Kampaku, o di cancelliere, che gli permise in pratica di essere reggente di un imperatore adulto.
In seguito a queste vicende, i Fujiwara gettarono le basi per un governo duraturo, riuscendo a mantenere stretti rapporti familiari con l'istituto imperiale, nonché il monopolio sulle cariche di sessho e di kampaku per circa tre secoli (dall'858 al 1160). Durante questo periodo, detto appunto Fujiwara, la potente famiglia aristocratica esercitò (pur con qualche interruzione) una supremazia incontrastata che le permise di porre la stessa famiglia imperiale sotto il proprio controllo. Tale dominio divenne poi ancora più onnipotente e a tratti dispotico a partire dal 967, sotto la guida del già citato Michinaga che inaugurò quello che gli studiosi chiamano sekkan seiji, o "governo dei reggenti".
venerdì 16 maggio 2008
Sukiyaki Western Django 鋤焼欧米のジャンゴ
Tanto per "sdrammatizzare" un po' questo blog, forse pieno di argomenti eccessivamente seri, ho pensato di parlare di un film che mi è capitato di vedere alla scorsa edizione del Festival del Cinema di Venezia, Sukiyaki Western Django. Si tratta di un western giapponese diretto da Takashi Miike (Osaka, 24 agosto 1960), regista molto prolifico (ha praticamente sfornato un film ogni uno-due anni), ma probabilmente ancora poco conosciuto in Italia, al di fuori dei suoi fans.
Rifacendosi liberamente al "Yojimbo" di Akira Kurosawa, il film è ambientato in uno sperduto e indefinito villaggio giapponese, dove si svolge uno scontro epocale tra due fazioni rivali: la gang vestita di bianco dei Genji, guidata dal cinico samurai Yoshitsune, e quella vestita di rosso degli Heike, guidata dallo stravagante e irruente Kiyomori. A turbare il già precario equilibrio del villaggio, contribuirà l'arrivo di un misterioso straniero senza nome, molto abile nell'uso delle armi, disposto a schierarsi con l'uno o l'altro gruppo, allo scopo di eliminare entrambi. La vicenda è poi arricchita da rivelazioni, colpi di scena e, naturalmente, dai luoghi comuni del genere western, che vanno dal pestaggio rituale dell'eroe al duello finale. Il tutto viene preceduto da un prologo molto teatrale, che mostra un inedito narratore quale Quentin Tarantino nei panni del pistolero Pirringo (crasi di Pierrot e Ringo), all'interno di un paesaggio astratto e visibilmente finto.
Fondendo i Western americani e all'italiana con la tradizione nipponica, Miike ha creato un vero e proprio ibrido transculturale che, pur avendo dei precedenti, potrebbe costituire il primo esemplare di un genere cinematografico completamente nuovo, il "Sukiyaki western" (dal nome di un tipico piatto giapponese a base di manzo e tofu), qualcosa di analogo ai nostri "Spaghetti western", per intenderci. Inoltre, come nel sukiyaki sono presenti i più vari ingredienti, in questo film troviamo di tutto: dai riferimenti storici sui clan Taira (gli Heike) e Minamoto (i Genji) e sulla celebre battaglia di Dannoura (1185), ai caratteri del Chambara (il filone dei film di cappa e spada nipponici), fino all'inserto "anime"; dai rimandi a Shakespeare, alle citazioni dei western di Leone e Corbucci fino alle rievocazioni del "Signore degli Anelli" di Jackson. Nel complesso, si tratta insomma di una specie di minestrone, un vero e proprio sukiyaki, in cui l'erudito e il raffinato si incontrano col demenziale, a tal punto che è difficile distinguerne i confini.
Rifacendosi liberamente al "Yojimbo" di Akira Kurosawa, il film è ambientato in uno sperduto e indefinito villaggio giapponese, dove si svolge uno scontro epocale tra due fazioni rivali: la gang vestita di bianco dei Genji, guidata dal cinico samurai Yoshitsune, e quella vestita di rosso degli Heike, guidata dallo stravagante e irruente Kiyomori. A turbare il già precario equilibrio del villaggio, contribuirà l'arrivo di un misterioso straniero senza nome, molto abile nell'uso delle armi, disposto a schierarsi con l'uno o l'altro gruppo, allo scopo di eliminare entrambi. La vicenda è poi arricchita da rivelazioni, colpi di scena e, naturalmente, dai luoghi comuni del genere western, che vanno dal pestaggio rituale dell'eroe al duello finale. Il tutto viene preceduto da un prologo molto teatrale, che mostra un inedito narratore quale Quentin Tarantino nei panni del pistolero Pirringo (crasi di Pierrot e Ringo), all'interno di un paesaggio astratto e visibilmente finto.
Fondendo i Western americani e all'italiana con la tradizione nipponica, Miike ha creato un vero e proprio ibrido transculturale che, pur avendo dei precedenti, potrebbe costituire il primo esemplare di un genere cinematografico completamente nuovo, il "Sukiyaki western" (dal nome di un tipico piatto giapponese a base di manzo e tofu), qualcosa di analogo ai nostri "Spaghetti western", per intenderci. Inoltre, come nel sukiyaki sono presenti i più vari ingredienti, in questo film troviamo di tutto: dai riferimenti storici sui clan Taira (gli Heike) e Minamoto (i Genji) e sulla celebre battaglia di Dannoura (1185), ai caratteri del Chambara (il filone dei film di cappa e spada nipponici), fino all'inserto "anime"; dai rimandi a Shakespeare, alle citazioni dei western di Leone e Corbucci fino alle rievocazioni del "Signore degli Anelli" di Jackson. Nel complesso, si tratta insomma di una specie di minestrone, un vero e proprio sukiyaki, in cui l'erudito e il raffinato si incontrano col demenziale, a tal punto che è difficile distinguerne i confini.
venerdì 9 maggio 2008
Breve introduzione ai bakemono 化け物
Il termine bakemono tende a indicare quelle schiere molto indefinite ed eterogenee di demoni giapponesi, che includono diverse specie di diavoli ed esseri malvagi, ma anche gli spiriti degli umani, degli animali e persino degli alberi e degli oggetti inanimati. I bakemono (anche detti obake) sono, appunto, i mostri, gli spettri o, meglio ancora, "i mutanti", chiamati così perché, nella maggior parte dei casi, mutano il proprio aspetto.
In Giappone, le storie di fantasmi, a differenza di quanto avviene in Occidente, non sono invernali ma tipicamente estive: infatti, è proprio in piena estate che gli spettri giapponesi vengono ricordati. Peraltro, tra luglio e agosto si svolge in Giappone il festival annuale Obon , la famosa celebrazione buddhista dei morti che dura circa un mese, durante il quale le famiglie ricevono le anime dei loro antenati, ponendo offerte di cibo davanti agli altari domestici. Alla fine di questo periodo breve ma intenso, le anime vengono nuovamente allontanate e viene quindi celebrata la loro espulsione: infatti, il culto giapponese degli antenati è interessato anzitutto all'eliminazione dell'impurità che il morto implica e, soprattutto, a mandare gli antenati per la loro strada. Perciò, l'Obon, non è tanto una celebrazione degli avi, quanto piuttosto una celebrazione del loro allontanamento dai vivi.
In generale, i bakemono sono frutto della commistione di elementi folcloristici buddhisti e di credenze autoctone shintoiste (basti pensare ai numerosi kami, divinità, dei miti ancestrali). Le leggende che li riguardano, talvolta di origine cinese (poi adottate e rielaborate dal credo shintoista), furono la principale ispirazione del teatro No; le storie erano poi state scritte in appositi libri di racconti e raffigurate in incisioni su legno. Tra i principali autori, ricordiamo Katsushita Hokusai (1760-1849) e Ueda Akinari, ma lo scrittore più famoso di questo genere letterario è probabilmente l'europeo Lafcadio Hearn (1850-1904), ancora molto apprezzato in Giappone e conosciuto con il nome giapponese acquisito di Koizumi Yakumo. A lui va attribuito il merito di aver riscritto vecchie storie di spettri e leggende popolari, alcune delle quali erano state tramandate fino ad allora solo oralmente.
In Giappone, le storie di fantasmi, a differenza di quanto avviene in Occidente, non sono invernali ma tipicamente estive: infatti, è proprio in piena estate che gli spettri giapponesi vengono ricordati. Peraltro, tra luglio e agosto si svolge in Giappone il festival annuale Obon , la famosa celebrazione buddhista dei morti che dura circa un mese, durante il quale le famiglie ricevono le anime dei loro antenati, ponendo offerte di cibo davanti agli altari domestici. Alla fine di questo periodo breve ma intenso, le anime vengono nuovamente allontanate e viene quindi celebrata la loro espulsione: infatti, il culto giapponese degli antenati è interessato anzitutto all'eliminazione dell'impurità che il morto implica e, soprattutto, a mandare gli antenati per la loro strada. Perciò, l'Obon, non è tanto una celebrazione degli avi, quanto piuttosto una celebrazione del loro allontanamento dai vivi.
A parte gli spiriti dei parenti defunti (eccetto gli yurei, le anime di uomini morti senza aver prima concluso il proprio compito, solitamente vendette per torti subiti), tutti gli altri bakemono non rientrano nel rito Obon. Della vasta e variegata categoria degli obake, infatti, fanno parte anche gli spiriti di animali; si tratta per lo più di volpi (kitsune) che potevano costituire entità benevoli, come nel caso dei messaggeri di Inari, dio del riso e della prosperità, ma anche demoni (yokai) infidi e ingannevoli, in grado di assumere sembianze umane (in particolare femminili), presagire catastrofi e perfino possedere le proprie vittime. Ci sono poi molte altre creature, buone e malvagie, che popolano i miti e le favole giapponesi, interagendo spesso con eroi leggendari o realmente esistiti. Per citarne giusto alcune, ricordo: gli oni, orchi con le corna che si nutrono di carne umana; i kappa, esseri simili a rospi che vivono nei fiumi e nei ruscelli più remoti, insidiando chiunque si addentri nelle loro acque; e i tengu, creature alate che abitano le foreste. Questi ultimi sono talvolta raffigurati con un tozzo becco, ma spesso hanno una feroce faccia scarlatta e un enorme naso. La benevolenza del tengu dipende essenzialmente dalla moralità di chi lo vede: una leggenda narra, per esempio, come Minamoto Yoshitsune, valoroso eroe militare del XII secolo, fosse stato educato nell'arte della spada da un vecchio e saggio tengu incontrato nella foresta.
In generale, i bakemono sono frutto della commistione di elementi folcloristici buddhisti e di credenze autoctone shintoiste (basti pensare ai numerosi kami, divinità, dei miti ancestrali). Le leggende che li riguardano, talvolta di origine cinese (poi adottate e rielaborate dal credo shintoista), furono la principale ispirazione del teatro No; le storie erano poi state scritte in appositi libri di racconti e raffigurate in incisioni su legno. Tra i principali autori, ricordiamo Katsushita Hokusai (1760-1849) e Ueda Akinari, ma lo scrittore più famoso di questo genere letterario è probabilmente l'europeo Lafcadio Hearn (1850-1904), ancora molto apprezzato in Giappone e conosciuto con il nome giapponese acquisito di Koizumi Yakumo. A lui va attribuito il merito di aver riscritto vecchie storie di spettri e leggende popolari, alcune delle quali erano state tramandate fino ad allora solo oralmente.
giovedì 1 maggio 2008
Okuninushi e Susanoo
Come gli era stato predetto, Okuninushi venne scelto come marito dalla principessa Yakami di Inaba, a scapito dei suoi 80 fratelli che, invece, erano stati respinti. Questi ultimi, quindi, invidiosi e furiosi, si accordarono tra di loro per ucciderlo; essi riuscirono più volte nel loro intento, facendogli rotolare addosso un masso infuocato a forma di cinghiale e, in una seconda occasione, colpendolo a morte mentre era incastrato in un albero. Tuttavia, in entrambi i casi, Okuninushi venne resuscitato dalla madre che lo indusse a fuggire, per evitare la collera dei fratelli; si recò quindi nella "dura terra delle radici", dove abitava il maestoso Susanoo, a cui avrebbe potuto chiedere aiuto. Raggiunta la dimora di questo dio, il nostro eroe si imbatté nella figlia, la principessa Suseri e i due si innamorarono al primo sguardo. Susanoo ne fu indignato e decise, allora, di mettere alla prova il pretendente, sottoponendolo a una serie di sfide mortali, che Okuninushi riuscì comunque a superare grazie all'aiuto della stessa Suseri. Dopo vari tentativi di eliminarlo, Susannoo gli ordinò, infine, di togliergli i pidocchi dalla testa (piena, in realtà, di millepiedi velenosi). Durante quell'ennesima prova, il dio si addormentò e Okuninushi ne approfittò per legargli i capelli alle travi del tetto e fuggire, privandolo della principessa Suseri, nonché delle potenti armi e della cetra magica. Così, quando Susanoo, svegliato all'improvviso dal suono accidentale dello strumento, tirò giù la stanza prima di sciogliere i capelli dalle travi, i due amanti erano ormai lontani. A questo punto, il dio finì per approvare Okuninushi e la sua scelta di sposare sua figlia e fondare con lei un nuovo regno; inoltre, gli consigliò di usare le armi rubate per annientare i propri fratelli.
In questo modo, Okuninushi divenne il sovrano della provincia di Izumo, regione che avrebbe ceduto poi ai discendenti della dea del Sole Amaterasu, ottenendo, in compenso, il governo del mondo invisibile degli spiriti e della magia, dando origine a un proprio culto. Infatti, egli viene venerato ancora oggi al Gran Santuario Izumo Taisha (originariamente dedicato a Susanoo). Si tratta del più antico tempio shintoista al mondo; in esso si celebra lo spirito dell'unione e del compromesso che Okuninushi rappresenta, in quanto simbolo dell'unione dei due potenti clan del Giappone antico, quello degli Izumo e quello degli Yamato. Inoltre, egli viene considerato il "Celestiale Mediatore dei Matrimoni" e gli si rivolgono preghiere per ottenere la felicità nell'amore e nel matrimonio o per garantire l'armonia familiare.
In questo modo, Okuninushi divenne il sovrano della provincia di Izumo, regione che avrebbe ceduto poi ai discendenti della dea del Sole Amaterasu, ottenendo, in compenso, il governo del mondo invisibile degli spiriti e della magia, dando origine a un proprio culto. Infatti, egli viene venerato ancora oggi al Gran Santuario Izumo Taisha (originariamente dedicato a Susanoo). Si tratta del più antico tempio shintoista al mondo; in esso si celebra lo spirito dell'unione e del compromesso che Okuninushi rappresenta, in quanto simbolo dell'unione dei due potenti clan del Giappone antico, quello degli Izumo e quello degli Yamato. Inoltre, egli viene considerato il "Celestiale Mediatore dei Matrimoni" e gli si rivolgono preghiere per ottenere la felicità nell'amore e nel matrimonio o per garantire l'armonia familiare.
sabato 26 aprile 2008
Okuninushi e la lepre di Inaba
Tra le numerose divinità del pantheon shintoista, una delle più popolari è Okuninushi (letteralmente, "Signore della grande terra"), dio dell'abbondanza, della medicina, della magia e dei matrimoni felici; é conosciuto anche con altri nomi, come quello giovanile di Onamuchi o quelli più avanzati di Yachihoko ("ottomila lance") e di Ashiharashiko, entrambi indicativi della sua forza e del suo potere; figlio del dio del mare e delle tempeste Susanoo e della principessa Kushinada, che il padre aveva salvato dalle grinfie del drago Yamata no Orochi, Okuninushi fu, secondo il mito, l'ultimo sovrano della provincia di Izumo (oggi parte della prefettura di Shimane, nell'Honshu sud-occidentale), prima di essere sostituito da Niniji, l'iniziatore dell'attuale dinastia imperiale degli Yamato. Tuttavia, prima di diventare sovrano di Izumo, il figlio di Susanoo visse varie avventure che misero in evidenza le qualità che lo distinsero dagli altri protagonisti della mitologia giapponese.
Esemplare è l'episodio della lepre di Inaba. Questo animale, nel tentativo di ingannare un coccodrillo per passare dall'isola di Oki a quella di Onshu, era finito scuoiato vivo e aveva chiesto aiuto a dei giovani che passavano da quelle parti: si trattava degli ottanta fratelli di Okuninushi, i quali si stavano recando dalla principessa Yakami di Inaba, con l'intento di sposarla. Vedendo la lepre agonizzante, essi le suggerirono di bagnarsi nell'acqua di mare e di esporsi al vento ma, così facendo, la pelle si piegò tutta, procurando ulteriori sofferenze allo sventurato animale. Fu allora che giunse sul posto il nostro eroe che aiutò la creatura, invitandola a sciacquarsi alla foce di un fiume per poi cospargersi la pelle di pollini. In questo modo, la pelle tornò come prima e l'animale riacquistò le sue vere fattezze divine: era, infatti, la candida e sacra lepre di Inaba, un kami, uno spirito il quale, in sego di gratitudine, predisse a Okuninushi che la principessa Yakami avrebbe sposato solo lui, respingendo le proposte dei suoi fratelli. La profezia si avverò, ponendo così le premesse per le nuove avventure del futuro signore di Izumo.
Trovo affascinante questa storia per i significati profondi che può assumere a seconda delle chiavi di lettura a cui viene sottoposta. Credo, in particolare, che si tratti un aneddoto sul confine sottile che separa l'apparenza dalla realtà: il messaggio del racconto sarebbe quello di non giudicare gli altri per quello che sembrano in quanto, a una prima occhiata, è impossibile capire quali immensi poteri nascondano. Il mito, secondo un concetto utilitaristico, vorrebbe, in pratica, invitare ciascuno ad aiutare anche chi non sembra importante. In questo senso, gli ottanta fratelli rappresenterebbero il punto di vista di gran parte della società che considera privo di importanza chi appare piccolo e debole (in questo caso, la lepre scuoiata), facendosi gioco della sua condizione. Al contrario, Okuninushi sarebbe colui che offre aiuto a chiunque glielo chieda, dando prova di una generosità disinteressata che finisce, comunque, per essere premiata.
Esemplare è l'episodio della lepre di Inaba. Questo animale, nel tentativo di ingannare un coccodrillo per passare dall'isola di Oki a quella di Onshu, era finito scuoiato vivo e aveva chiesto aiuto a dei giovani che passavano da quelle parti: si trattava degli ottanta fratelli di Okuninushi, i quali si stavano recando dalla principessa Yakami di Inaba, con l'intento di sposarla. Vedendo la lepre agonizzante, essi le suggerirono di bagnarsi nell'acqua di mare e di esporsi al vento ma, così facendo, la pelle si piegò tutta, procurando ulteriori sofferenze allo sventurato animale. Fu allora che giunse sul posto il nostro eroe che aiutò la creatura, invitandola a sciacquarsi alla foce di un fiume per poi cospargersi la pelle di pollini. In questo modo, la pelle tornò come prima e l'animale riacquistò le sue vere fattezze divine: era, infatti, la candida e sacra lepre di Inaba, un kami, uno spirito il quale, in sego di gratitudine, predisse a Okuninushi che la principessa Yakami avrebbe sposato solo lui, respingendo le proposte dei suoi fratelli. La profezia si avverò, ponendo così le premesse per le nuove avventure del futuro signore di Izumo.
Trovo affascinante questa storia per i significati profondi che può assumere a seconda delle chiavi di lettura a cui viene sottoposta. Credo, in particolare, che si tratti un aneddoto sul confine sottile che separa l'apparenza dalla realtà: il messaggio del racconto sarebbe quello di non giudicare gli altri per quello che sembrano in quanto, a una prima occhiata, è impossibile capire quali immensi poteri nascondano. Il mito, secondo un concetto utilitaristico, vorrebbe, in pratica, invitare ciascuno ad aiutare anche chi non sembra importante. In questo senso, gli ottanta fratelli rappresenterebbero il punto di vista di gran parte della società che considera privo di importanza chi appare piccolo e debole (in questo caso, la lepre scuoiata), facendosi gioco della sua condizione. Al contrario, Okuninushi sarebbe colui che offre aiuto a chiunque glielo chieda, dando prova di una generosità disinteressata che finisce, comunque, per essere premiata.
venerdì 18 aprile 2008
Kagemusha 影武者
Mostrando uno scorcio del Giappone del periodo Azuchi-Momoyama (1568-1598), il regista Akira Kurosawa dedica il film Kagemusha, l'ombra del guerriero (1980) a uno dei più famosi capi politici e militari del XVI secolo, Takeda Shingen (1521-1573). L'azione si svolge in un epoca di guerre civili tra signori feudali (i cosiddetti dimyo), alcuni dei quali miravano a unificare il Paese sotto il proprio vessillo. Shingen è, appunto, uno di questi convinti fautori dell'unificazione nazionale ma, durante un'assedio, viene ferito mortalmente da un colpo di archibugio. Su suggerimento del fratello Nobukado e per volontà dello stesso Shingen, si mantiene segreta la scomparsa del leader dei Takeda, sostituendolo temporaneamente con un kagemusha (un uomo-ombra, cioè un sosia), al fine di non demoralizzare le truppe e ingannare il nemico. Inizialmente, il kagemusha, essendo un ladro, assolverà al suo compito per mera convenienza, senza nascondere la sua natura, ma finirà poi per identificarsi totalmente nel personaggio assumendone la personalità e perdendo la propria identità. Dopo essere stato smascherato e scacciato, il sosia non riuscirà più a staccarsi dal "suo" clan anche quando questo verrà annientato nella storica battaglia di Nagashino (1575): lui stesso rimarrà vittima dello scontro, tentando di proteggere il "suo" stendardo.
In questa amara parabola sull'illusione della vita e la caducità delle cose umane, il regista fonde la tradizione letteraria europea (in particolare, Shakespeare) e quella medievale giapponese (citando, per esempio, il poema epico duecentesco Eike Monogatari) con l'astrattezza del teatro No. Inoltre, reinventando liberamente la vicenda del kagemusha di Shingen, Kurosawa ricostruisce fedelmente i personaggi e gli avvenimenti che hanno segnato la storia del Giappone moderno: Oda Nobunaga (1534-1582), il grande avversario dei Takeda, noto come il primo unificatore del Paese; Tokugawa Ieyasu (1543-1616), fondatore di quella dinastia che governerà l'arcipelago per più di due secoli; e, naturalmente, la battaglia di Nagashino (avrò modo di parlarne in seguito), di cui il regista mostra solo l'inizio e la fine, lasciando immaginare il resto allo spettatore, attraverso il sonoro e le reazioni dei protagonisti.
Vincitore della Palma d'oro al Festival Cannes nel 1982, Kagemusha è, a mio parere, uno dei migliori film storici mai realizzati: azzeccatissime, in particolare, le scene che mostrano un Nobunaga fanatico dell'occidente benedetto da un padre gesuita e deliziato dal vino "straniero"; Visualmente straricco di effetti cromatici, è brillantissimo anche nelle sequenze epiche (non per niente è stato prodotto da Francis Ford Coppola e da Geoge Lucas)...Insomma, un film che consiglio a tutti.
martedì 8 aprile 2008
Yojimbo 用心棒
Meglio conosciuto in Italia come La sfida del samurai (ma letteralmente significa "La guardia del corpo"), Yojimbo (1961) è una sorta di parodia dei tradizionali film in costume giapponesi ("Jidai geki"), nonché un'originale rivisitazione del western hollywoodiano da parte di Akira Kurosawa (1910-1998). Questo film si svolge in epoca Tokugawa (1603-1867), l'età del Giappone popolato dai samurai senza padrone e privi di un impiego stabile (i cosiddetti "ronin") che vagavano senza una meta precisa alla ricerca di qualcuno a cui vendere i propri servigi. Il protagonista di Yojimbo (interpretato da Toshiro Mifune) è appunto Sanjuro (ovvero "Trent'anni", un modo per dire Nessuno), uno di questi ronin. Il samurai capita, per caso, in un villaggio insanguinato dalla guerra tra due clan rivali, ciascuno dei quali vorrà servirsi della sua abilità con la spada per avere finalmente la meglio sull'avversario. Intanto, Sanjuro, attraverso le armi dell'astuzia e del doppio gioco, cercherà di logorare entrambe le fazioni, passando ora al servizio dell'una, ora dell'altra. Ma sotto il suo cinismo e la sua crudeltà, paragonabili a quelli dei due contendenti, si cela, in realtà, lo spirito eroico e cavalleresco del guerriero antico che porterà il samurai a difendere una giovane donna a rischio della sua stessa vita.
Yojimbo è, insomma, un film d'azione impregnato di violenza e di umorismo sarcastico che, nell'intenzione del regista, si propone di raccontare in chiave ironico-grottesca la lotta tra bande di yakuza che dominano sia sugli schermi che nella vita dei giapponesi. Questo film avrà un seguito in Sanjuro (1962), mentre dalla sua trama Sergio Leone ricaverà il famoso western Per un pugno di dollari (1964), venendo per questo accusato di plagio dalla casa produttrice Toho. L'opera di Kurosawa non ha, comunque, nulla da invidiare al remake italiano, distinguendosi da esso per la sua sottile ironia e la sua raffinata stilizzazione.
mercoledì 2 aprile 2008
Rashomon 羅生門
Dopo aver parlato molto di storia, inauguro oggi la nuova etichetta del cinema, dedicando il suo primo articolo a uno dei più famosi film di Akira Kurosawa (1910-1998). Sto parlando di Rashomon (1950), film drammatico che fece conoscere non solo il regista, ma anche il cinema giapponese in tutto il mondo, vincendo il Leone d'oro al Festival di Venezia nel 1951.
Rashomon è tratto da due brevi rekishi mono (racconti storici) dello scrittore giapponese Ryunosuke Akutagawa (1989-1927), ambientati rispettivamente nel Giappone antico del periodo Heian (794-1185) e in quello medievale: Rashomon (ovvero, "La porta di Rasho", a Kyoto), pubblicato nel 1921 su una rivista dell'Università di Tokyo; e Yabu no naka (Nel bosco), uscito nel 1921 e considerato il capolavoro della sua produzione.
Il film si svolge probabilmente durante il XV secolo e inizia con l'incontro tra un boscaiolo, un monaco e un passante sotto il portico di un tempio dedicato al dio Rasho, dove questi avevano trovato riparo dalla pioggia; la loro conversazione rievoca il caso di un bandito (Toshiro Mifune) messo sotto processo per aver ucciso un samurai (Masayuki Mori) e per averne violentato la moglie (Machiko Kyo). L'accaduto era stato raccontato in maniera diversa dai suoi protagonisti (perfino dal samurai defunto, evocato da una maga): infatti, ciascuno di loro aveva dato una personale versione dei fatti, cercando di salvare il proprio onore e facendo cadere la colpa sugli altri due. Da una quarta versione, quella del boscaiolo, unico testimone esterno della vicenda, risulterà poi che tutti e tre si erano comportati in modo disonorevole. Rashomon è quindi una parabola sulla relatività della verità, che denuncia il male e l'egoismo presenti in tutti gli uomini, pur lasciando, alla fine, un messaggio di speranza e di umanità.
Questo film costituisce senz'altro un capolavoro del cinema nipponico che non stanca mai e che si muove a un ritmo incalzante. E' difficile credere che non sia stato subito apprezzato in Giappone.
mercoledì 26 marzo 2008
Il periodo Nara 奈良時代 (710-784 d.C.)3
In seguito all'applicazione dell'editto Taika del 646, nel periodo Nara giunge a compimento la formazione, in Giappone, di uno stato centralizzato e subordinato all'autorità della famiglia imperiale. In particolare, l'editto prevedeva l'assegnazione del pieno controllo delle terre al sovrano, che si riservava il diritto di riscuotere le tasse attraverso l'adozione di un sistema fondiario e fiscale già in uso in Cina. Tale sistema, detto kubunden (ovvero campi divisi per ogni bocca), comportava la distribuzione di determinate porzioni di terra alle famiglie contadine, tenute a coltivarle e a pagare i relativi tributi. Il governo imperiale ricavava da questo assetto una forza economica e politica assoluta ma non sempre riuscì, tuttavia, a garantire l'efficienza del sistema kubunden. Esso avrebbe subito importanti trasformazioni fino a rivelarsi praticamente inadeguato nell'assicurare l'egemonia del sovrano.
A determinare tali trasformazioni fu, innanzitutto, il fatto che in un Giappone ancora arretrato e centralizzato solo di recente, era assai difficile per il governo centrale combattere tendenze dure a morire come la sostanziale autonomia degli antichi uji (o clan) e l'influenza che essi avevano ancora sui contadini contribuenti. Inoltre, dato che si accedeva alle cariche più alte in base alla nascita e non al merito, mancava una burocrazia potente e in grado di amministrare correttamente le province; molte dei queste, infatti, venivano lasciate della corte in uno stato di semi abbandono. Per non parlare del fatto che la pressione fiscale esercitata sugli agricoltori spingeva questi ad abbandonare le terre kubunden mentre ondate di malattie provenienti dal continente (come l'epidemia di vaiolo del 735-737) provocavano la rovina e quindi l'abbandono di molti altri campi.
Tutti questi fattori resero evidente la debolezza e la mancanza di flessibilità del sistema cinese di nazionalizzazione della terra e spinsero il governo ad adottare contromisure per incrementare la produttività delle terre statali e, così, le entrate provenienti dalla loro tassazione. Infatti, con l'obiettivo di portare nuove risorse nelle casse dello stato, il governo volle estendere le aree coltivabili ma, non riuscendo a raccogliere la manodopera necessaria, promulgò due leggi che incentivassero la bonifica del territorio: un decreto del 723 concedeva a famiglie aristocratiche o istituzioni religiose il possesso privato per una o tre generazioni delle terre che avessero reso produttive; un'atro decreto del 743 avrebbe poi reso perpetua tale concessione.
Le due leggi contraddicevano palesemente l'intero sistema promosso dalla riforma Taika, dato che le nuove zone messe a cultura non erano più "terre pubbliche" e "di proprietà imperiale", ma possedimenti privati, detti shoen, sottoposte al controllo della nobiltà e del clero. In questo modo, aristocratici di corte e i grandi templi della capitale, ottenendo perfino l'esenzione fiscale, aumentarono notevolmente la loro ricchezza e la loro influenza a scapito di quelle del sovrano, che vide invece diminuire progressivamente le proprie entrate nonché il proprio controllo sulla terra e su i suoi abitanti.
Quindi, a partire dalle contraddizioni del sistema fondiario era ormai iniziato un processo di decadimento del potere centrale, un processo che non poteva essere arrestato nemmeno dell'iniziativa di imperatori energici e abili, come ad esempio Kanmu che regnò dal 781 all'806. Salito al trono come cinquantesimo imperatore, Kanmu è ricordato per aver trasferito la capitale da Nara a Nagaoka nel 784 e nuovamente a Heiankyo (l'odierna Kyoto) nel 794. Nella sua nuova sede, Kanmu mirò a rafforzare l'autorità imperiale e a ripristinare il suo antico ruolo limitando nel contempo la nascita di nuove tenute private. Ma alla lunga il suo progetto si sarebbe rivelato vano e la dinastia imperiale avrebbe finito per ricoprire un ruolo puramente sacrale e cerimoniale, mentre avrebbe smesso di ricoprire quello politico per circa un millennio.
A determinare tali trasformazioni fu, innanzitutto, il fatto che in un Giappone ancora arretrato e centralizzato solo di recente, era assai difficile per il governo centrale combattere tendenze dure a morire come la sostanziale autonomia degli antichi uji (o clan) e l'influenza che essi avevano ancora sui contadini contribuenti. Inoltre, dato che si accedeva alle cariche più alte in base alla nascita e non al merito, mancava una burocrazia potente e in grado di amministrare correttamente le province; molte dei queste, infatti, venivano lasciate della corte in uno stato di semi abbandono. Per non parlare del fatto che la pressione fiscale esercitata sugli agricoltori spingeva questi ad abbandonare le terre kubunden mentre ondate di malattie provenienti dal continente (come l'epidemia di vaiolo del 735-737) provocavano la rovina e quindi l'abbandono di molti altri campi.
Tutti questi fattori resero evidente la debolezza e la mancanza di flessibilità del sistema cinese di nazionalizzazione della terra e spinsero il governo ad adottare contromisure per incrementare la produttività delle terre statali e, così, le entrate provenienti dalla loro tassazione. Infatti, con l'obiettivo di portare nuove risorse nelle casse dello stato, il governo volle estendere le aree coltivabili ma, non riuscendo a raccogliere la manodopera necessaria, promulgò due leggi che incentivassero la bonifica del territorio: un decreto del 723 concedeva a famiglie aristocratiche o istituzioni religiose il possesso privato per una o tre generazioni delle terre che avessero reso produttive; un'atro decreto del 743 avrebbe poi reso perpetua tale concessione.
Le due leggi contraddicevano palesemente l'intero sistema promosso dalla riforma Taika, dato che le nuove zone messe a cultura non erano più "terre pubbliche" e "di proprietà imperiale", ma possedimenti privati, detti shoen, sottoposte al controllo della nobiltà e del clero. In questo modo, aristocratici di corte e i grandi templi della capitale, ottenendo perfino l'esenzione fiscale, aumentarono notevolmente la loro ricchezza e la loro influenza a scapito di quelle del sovrano, che vide invece diminuire progressivamente le proprie entrate nonché il proprio controllo sulla terra e su i suoi abitanti.
Quindi, a partire dalle contraddizioni del sistema fondiario era ormai iniziato un processo di decadimento del potere centrale, un processo che non poteva essere arrestato nemmeno dell'iniziativa di imperatori energici e abili, come ad esempio Kanmu che regnò dal 781 all'806. Salito al trono come cinquantesimo imperatore, Kanmu è ricordato per aver trasferito la capitale da Nara a Nagaoka nel 784 e nuovamente a Heiankyo (l'odierna Kyoto) nel 794. Nella sua nuova sede, Kanmu mirò a rafforzare l'autorità imperiale e a ripristinare il suo antico ruolo limitando nel contempo la nascita di nuove tenute private. Ma alla lunga il suo progetto si sarebbe rivelato vano e la dinastia imperiale avrebbe finito per ricoprire un ruolo puramente sacrale e cerimoniale, mentre avrebbe smesso di ricoprire quello politico per circa un millennio.
martedì 18 marzo 2008
Il periodo Nara 奈良時代 (710-784 d.C.)2
Come si è potuto capire dall'articolo precedente, la religione buddhista e la sua diffusione svolsero un ruolo determinante durante il periodo Nara. Infatti, nonostante non avesse sostituito lo Shintoismo ne come culto popolare ne come fonte principale del potere imperiale, il Buddhismo riscontrò un grande successo nel Giappone dell'epoca a livello sia religioso che culturale, godendo, tra l'altro, dei favori ufficiali della Corte. Per esempio, i grandi templi della capitale ricevettero un forte sostegno economico, attraverso la concessione di proprietà private e la possibilità di acquisire nuovi possedimenti senza dover pagare tributi al governo centrale. Per questo motivo, e per il fatto di avere tra i suoi monaci membri della nobiltà e perfino ex imperatori, il clero buddhista poté disporre di un peso politico tale da condizionare le dispute per il potere all'interno della stessa Corte imperiale.
Emblematico è l'episodio di cui fu protagonista l'Imperatrice Koken, figlia dell'Imperatore Shomu, salita al trono nel 749. Fervente buddhista, come lo era stato il padre, Koken patrocinò molte cerimonie e difese i princìpi della sua fede, condannando a pene severe chiunque li avesse violati. Nel 758, abdicò a favore dell'Imperatore Junnin e si ritirò a vita monastica; nel frattempo, aveva conferito cariche importanti a un monaco, Dokyo, probabilmente per averla guarita da una malattia. Grazie ai titoli e ai privilegi ricevuti da Koken, Dokyo divenne tanto potente da costituire una minaccia per l'Imperatore in carica, che intervenne militarmente contro di lui, ma senza successo: Dokyo sventò l'attacco e l'ex Imperatrice tornò sul trono col nome di Shotoku, condannando all'esilio il suo predecessore. L'Imperatrice, quindi, accrebbe ulteriormente con altre cariche il potere del monaco che, mosso dall'ambizione, pretese perfino di essere nominato Imperatore. Era evidente che il clero buddhista dominava ormai la Corte e fu solo la morte di Koken nel 770 a determinare la fine del potere di Dokyo, che venne esiliato dalla capitale.
In seguito, la vicenda spinse gli imperatori successivi a ridurre drasticamente il sostegno alle istituzioni religiose e a spostare, nel 784, la capitale da Nara a Nagaoka, a sud-est dell'odierna Kyoto, con lo scopo di allontanare, anche fisicamente, l'influenza dei grandi templi buddhisti e dei loro sacerdoti dagli affari di Stato.
Emblematico è l'episodio di cui fu protagonista l'Imperatrice Koken, figlia dell'Imperatore Shomu, salita al trono nel 749. Fervente buddhista, come lo era stato il padre, Koken patrocinò molte cerimonie e difese i princìpi della sua fede, condannando a pene severe chiunque li avesse violati. Nel 758, abdicò a favore dell'Imperatore Junnin e si ritirò a vita monastica; nel frattempo, aveva conferito cariche importanti a un monaco, Dokyo, probabilmente per averla guarita da una malattia. Grazie ai titoli e ai privilegi ricevuti da Koken, Dokyo divenne tanto potente da costituire una minaccia per l'Imperatore in carica, che intervenne militarmente contro di lui, ma senza successo: Dokyo sventò l'attacco e l'ex Imperatrice tornò sul trono col nome di Shotoku, condannando all'esilio il suo predecessore. L'Imperatrice, quindi, accrebbe ulteriormente con altre cariche il potere del monaco che, mosso dall'ambizione, pretese perfino di essere nominato Imperatore. Era evidente che il clero buddhista dominava ormai la Corte e fu solo la morte di Koken nel 770 a determinare la fine del potere di Dokyo, che venne esiliato dalla capitale.
In seguito, la vicenda spinse gli imperatori successivi a ridurre drasticamente il sostegno alle istituzioni religiose e a spostare, nel 784, la capitale da Nara a Nagaoka, a sud-est dell'odierna Kyoto, con lo scopo di allontanare, anche fisicamente, l'influenza dei grandi templi buddhisti e dei loro sacerdoti dagli affari di Stato.
martedì 11 marzo 2008
Il periodo Nara 奈良時代 (710-784 d.C.)1
Il periodo Nara è quello in cui la capitale, sede del Governo imperiale, era Heijokyo (oggi Nara, appunto), situata nella pianura di Yamato. La città fu fondata nel 710 secondo i parametri urbanistici di Ch'ang-an, capitale cinese sotto la dinastia T'ang: riproduceva, infatti, la stessa pianta a griglia rettangolare, insieme ad altre caratteristiche dello stile architettonico e urbanistico cinese. Con i suoi 20 chilometri quadrati di estensione, Nara doveva rappresentare l'intenzione dei sovrani giapponesi di ispirarsi al modello continentale per esprimere, anche visivamente, il proprio potere.
In questo contesto, gli imperatori e le famiglie nobili vollero attingere dal Buddhismo forza e prestigio, finanziando la costruzione di splendidi templi e patrocinando importanti cerimonie. Esemplare fu lo zelo buddhista di Shomu "il Pio", imperatore dal 724 al 749, che, mosso dall'intento di proteggere il suo paese da una grande epidemia di Vaiolo e altre calamità, fece costruire un tempio in ciascuna provincia. Inoltre, commissionò grandiose costruzioni buddhiste all'interno della capitale, come il Tempio Todai-ji a Nara dove è custodito il Grande Buddha seduto (o Daibutsu), una delle statue in bronzo più grandi del mondo (è alto circa 18 metri); durante la consacrazione della statua nel 752, ovvero la cerimonia della "apertura degli occhi" del Buddha, parteciparono personaggi provenienti dalla Cina, dalla Corea e perfino dall'India.
Quello Nara è un periodo di frequenti contatti con vari paesi dell'Asia orientale ( e non solo), anche se il partner privilegiato del Giappone fu la Cina con cui, già a partire dal 701, aveva inaugurato una nuova stagione di intensi scambi commerciali e culturali. Infatti, dalla Cina i giapponesi assorbirono, oltre al Buddhismo, anche altre dottrine filosofiche, la letteratura, l'arte e le riforme politiche. Tuttavia, non si trattò di un'imitazione indiscriminata di tutto ciò che fosse cinese ma , piuttosto, di una rielaborazione originale del modello straniero, adattandolo alle esigenze indigene.
In ambito letterario, a partire dai caratteri cinesi, si sviluppò, per esempio, un sistema di scrittura giapponese distinto: assistiamo, in pratica, alla compilazione del Kojiki (712) e del Niohon Shoki (720), le prime vere opere letterarie giapponesi. Entrambe nacquero dalla concezione cinese secondo cui un governo dovesse compilare accuratamente gli eventi storici del passato come guida dell'azione politica. Tuttavia, diversamente dalle cronache ufficiali cinesi, le due opere storiche giapponesi sono attendibili solo per quanto riguarda gli ultimi 3 secoli della narrazione, mentre, per il resto, riportano episodi remoti della mitologia antica e fatti surreali. Il loro obbiettivo principale era quello di glorificare il passato della dinastia regnante Yamato, conferendole un'eredità divina. La famiglia imperiale giunse così a legittimare il proprio dominio sul Giappone, un dominio ormai totalmente consolidato dopo un lungo processo di centralizzazione del potere, iniziato nel periodo Kofun (250/300-538 d.C.).
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